“E tu che lavoro fai?”. Me lo sono sentita ripetere praticamente sempre, per anni.
Ogni volta che mi presentavo a qualcuno, o che mi trovavo a scambiare delle chiacchiere di cortesia con sconosciuti, la prima domanda che mi veniva posta era sempre questa: “E tu che lavoro fai?”. E ovviamente io rispondevo, perché non l’ho mai trovata una domanda su cui soffermarsi più di tanto, e dicevo la verità.
Così ho iniziato a porla anche io quella domanda, a chiedere, ogni qualvolta mi trovassi a parlare per la prima volta con qualcuno: “E tu che lavoro fai?”. E le persone mi rispondevano. E quindi sono andata avanti così per anni, a chiedere alle persone che lavoro facessero. Per me era un modo per far parlare di sé, per iniziare una chiacchierata che magari si sarebbe consumata nel giro di qualche minuto o che sarebbe stata l’inizio di una piacevole e lunga conversazione. Ecco, questo accadeva fino a qualche tempo fa.
Prima di trasferirmi a Roma, circa due anni fa, ho vissuto a Milano per 13 anni. Ho terminato lì i miei studi in comunicazione e ho avviato la mia carriera da giornalista, di fatto ho mosso i primi passi nel mondo del lavoro - stabile - ma soprattutto ho vissuto una città totalmente diversa da quella a cui ero abituata, la mia Napoli. E anche la socialità è stata per me terra di scoperta.
La città sempre in movimento, che ti permette di essere e di diventare ciò che vuoi, senza apparente giudizio, nasconde in realtà un carico non troppo leggero, ed è proprio quello che riguarda l’affermazione del sé, perché se da un lato autodeterminarsi in una città come Milano risulta semplice, essere qualcuno scindendosi dal proprio lavoro è pressoché impossibile. Io sono il mio lavoro, ed è quel lavoro che mi presenta al mondo, posizionandomi in una determinata classe sociale e di conseguenza definendo ciò che sono e ciò che non sono, ma soprattutto ciò che posso essere e ciò che non posso essere. Tutto questo al di là della nostra volontà.
No, il lavoro non ci classifica
Noi decidiamo di inseguire un sogno, e se siamo fortunati riusciamo a realizzarlo, o semplicemente scegliamo un lavoro che sia affine a ciò che sappiamo fare o alle nostre esigenze di vita, spesso economiche. A volte, anzi nella stragrande maggioranza dei casi, facciamo ciò che capita perché banalmente non ci interessa oltremodo o è l’unica cosa che ci è stato permesso di poter fare. Crescendo impari velocemente che il lavoro spesso ha poco a che fare con le aspettative ma tanto con la realtà delle cose, che in gran parte dei casi non dipendono da noi; e questa roba qui in una città come Milano è una cosa difficile da accettare, perché lì ci vai per cogliere l’opportunità, per emergere, per essere e fare ciò che altrove non potresti essere e fare, per realizzare il sogno.
E come nella più celebre terra americana, non è contemplata l’idea di non riuscirci, e così lavorare vuol dire essere, vuol dire diventare. Il lavoro ti classifica. E quindi quella domanda che per anni ho posto con superficialità perché con la stessa superficialità e magari ignoranza, era stata posta a me - “E tu che lavoro fai?” - non è solo una domanda ma è un modo per dire: “Io ce l’ho fatta, e tu?”.
E tu se non ce l’hai fatta, dove farcela si presuppone voglia dire aver realizzato un sogno o quantomeno raggiunto un obiettivo, allora cosa sei? E se non lavori, perché sei stato licenziato o ti hanno licenziato, allora cosa sei? E sei fai la mamma a tempo pieno in un paese in cui il lavoro di cura non viene riconosciuto, allora cosa sei? Oggi, non potresti mai presentarti a qualcuno dicendo che “fai la mamma” o, ancora peggio, che un lavoro non ce l’hai, che sei disoccupato, senza ricevere sguardi di giudizio o di compassione dall’altra parte.
La vergogna della disoccupazione
In una società capitalista, a trazione americana, la realizzazione del sé passa attraverso il lavoro, e quando questo non accade vuole dire che c’è stato un fallimento, e quel fallimento, ci hanno insegnato, è imputabile solo a noi.
In un altro momento storico, in un’altra fase della mia vita, probabilmente ci sarei caduta in questo tranello, ma la rivoluzione della maternità mi ha permesso di iniziare a far cadere questo muro fatto di competitività sfrenata, individualismo e vergogna. Non c’è vergogna quando si parla di lavoro, qualunque esso sia, non c’è vergogna nel lavoro di cura, ma soprattutto non c’è vergogna quando il lavoro non c’è, perché al di là di ciò che facciamo, esiste prima chi siamo, che è determinato da ben altre cose. E allora io ho smesso di porla quella domanda, mi basta dire “Piacere, Chiara” e aspettare che mi venga restituito un nome, e una storia.
Quando conosco una donna, che è anche madre, disoccupata, mi chiedo sempre se 1) è una scelta e ha altre possibilità/aiuti e 2) se è stata licenziata ed è disoccupata contro la sua volontà. In entrambi i casi non la giudico ma penso alla sua sanità mentale e alla sua indipendenza. Il paradosso sta pure quando fai la domanda al nido, se un genitore (spesso la donna) è disoccupato scendi in graduatoria perché la logica è "pure se non entra starà lei con bambino" e questa cosa ti mette in un loop infinito in cui poi è impossibile cercare attivamente lavoro.