“Sai Chiara, se provo a tornare indietro faccio un po’ fatica, perché mi sembra passato un secolo, ma non sono passati nemmeno due anni da quando, durante un controllo di routine, mi hanno parlato di riserva ovarica bassa. A me. Quella che ha sempre tutto sotto controllo: il ciclo perfetto, la visita una volta l’anno, la prevenzione, l’informazione. Tutto.
Io non sapevo cosa volesse dire riserva ovarica bassa. Sapevo che la mia età a breve non mi avrebbe più permesso di accedere ai benefici del mutuo giovani e che di certo non sarei più stata la fertilissima Mesopotamia, ma sapevo anche di non aver nessun problema. A parte, a quanto pare, i valori ormonali di una quarantenne stressata pur avendo superato da poco i trenta.
La verità è che ci hanno raccontato una favola molto lontana dalla realtà, quella per cui grazie agli studi elevati avremmo potuto scegliere il lavoro che ci piaceva, costituire la nuova borghesia etica e costruire un mondo migliore. Invece finiti gli studi, a 25 anni abbiamo scoperto che la classe media stava sparendo, nel frattempo c’era stata una crisi economica seguita da una crisi epidemiologica mondiale ed eccoci qui a cercare una stabilità mentre la nostra fertilità ci saluta.
Arrivo a quello di cui volevo parlarti: il senso di colpa. Quando ho scoperto che cosa volesse dire riserva ovarica bassa, io e mio marito stavamo ancora a fare i fighi-fuori-dagli-schemi-non-mi-piego-al-volere-della-società-bla-bla, cioè ci stavamo interrogando con estrema responsabilità e profondità su quanto davvero volessimo provare ad avere un figlio.
Perché quando hai una vita piena di progetti personali, di passioni e di impegni lavorativi, quando hai una relazione stabile, hai raggiunto un equilibrio di coppia, dove stai bene e ti diverti pure, mentre nel frattempo vedi dall’altro lato un mondo che ti fa sempre più paura, beh, certe cose te le chiedi. Che poi cosa ti chiedi, che hai preso una casa più grande perché volevi una stanza in più sicuramente non per stirare, visto che non hai mai stirato in vita tua.
Ecco aspetta vedi, già mentre ti scrivo mi sento ancora in colpa per tutte le cose che ho pensato e che ancora ogni tanto penso. Non sai quante volte mi sono sentita egoista e superficiale ad aver pensato all’alcol che non avrei potuto bere, al viaggio che non avrei potuto fare, al master che stavo pensando da un po’ di iniziare. Ho pensato di essermela un po’ meritata, questa riserva ovarica bassa.
La verità è che ho imparato che la parte più difficile di questo percorso - provare ad avere un figlio quando non arriva - è perdonare sé stessi. Anche più del rimuovere il senso di colpa. Perciò, forse, è meglio passare direttamente alla fase in cui ti perdoni, pure per i peccati che non ha mai commesso.
Il mese scorso ho perso il mio bambino a 5 settimane, prima ancora di poterlo vedere in un’ecografia (sì, la chiamano biochimica, ma per me pure se per poco è stato altro) e il sentimento che ancora oggi non sono riuscita a superare è il senso di colpa.
Perché quando ho scoperto di essere incinta e mi hanno detto da un giorno all’altro che avrei dovuto annullare tutti miei impegni, lavorativi e non, e stare qualche settimana a riposo tra letto e divano, il mio cervello è andato in tilt. Vedevo tutti gli altri che continuavano la loro vita mentre io ero terrorizzata e frustrata, costretta a una sorta di lockdown personale.
Noi giovani donne di oggi, iperperformanti e multitasking, costrette con la maternità a metterci da parte, andiamo in crisi. A me è stato chiesto praticamente dal giorno zero. Oggi darei qualsiasi cosa per tornare su quel divano ad aspettare il futuro.
Forse mi sono perdonata per essere arrivata tardi a scoprire cosa fosse una riserva ovarica bassa, ma per le emozioni che ho provato quando mi hanno imposto il riposo non l’ho ancora fatto. Dovrei farlo. Intanto, spero che qualcuna nel leggere queste righe si senta meno sola di quanto mi sia sentita io in questi lunghi mesi”.
Quando ho ricevuto questa lettera nella mia casella mail l’ho letta, riletta, e letta ancora. Ho pianto, l’ho riletta. E alla fine ho deciso di pubblicarla per intero. Perché non c’era modo migliore per cominciare questa puntata.
Dovevi pensarci prima a un figlio
C’è una gioia che accomuna le neo-mamme, uno sguardo che esprime felicità bambinesca che occhi stanchi per la mancanza di sonno riescono comunque ad esprimere. Quegli occhi si incrociano per strada e si salutano senza parole, si sorridono per empatia e sorellanza. A volte quelle parole prendono vita, e quei silenzi diventano discorsi, banali per molti, ripetitivi per tanti, ma fondamentali per non sentirsi sole, perché il dolore, le ansie, le domande senza risposta, sono più leggeri se condivisi, fanno meno paura. A me è accaduto spesso nei mesi successivi alla nascita di Nina, e mi ha fatto stare bene. Mi sono dovuta sforzare per farle uscire quelle parole, ma una volta iniziato non ho più smesso, ed è stato salvifico.
Ma la gioia non è l’unico sentimento che si comunica in silenzio, ce n’è un altro che in questi mesi ho osservato dall’esterno con dolore, lo stesso dolore che accomuna tante donne, quelle in attesa, che aspettano, senza sapere, se un figlio arriverà mai. Sono tante, tantissime. E non hanno sempre gli occhi che sorridono, li hanno fissi e muti, mentre fingono che quell’attesa non esista, che quel sogno non sia vero. Lo chiamo il male del nostro tempo, e per male non intendo nulla di negativo, nessun sentimento sbagliato, ma un dolore, un malessere che pesa come un macigno sul cuore di chi lo porta, in silenzio.
Non ne hai piena consapevolezza fino a quando non pensi concretamente all’idea di avere un figlio, perché prima di quel momento vivi un po’ dell’idea che un figlio possa arrivare quando lo desideri, che ci pensi e te lo ritrovi nella pancia prima e tra le braccia poi, ma - spoiler - non è così, non lo è quasi mai.
Basta poco per scontrarti con la realtà, col fatto che spesso, come nella vita, le cose non arrivano quando le vuoi, quando ti senti pronta, banalmente quando lo decidi, ma arrivano quando arrivano, e a volte, pure se ti fa incazzare, non arrivano e basta. Solo che un figlio non è un lavoro, non è una casa, un figlio non è un’emozione passeggera, lo sfizio del momento o parte di una lista di cose da spuntare. Un figlio è un qualcosa che fa parte di te, ancor prima che nasca, ne fa parte soprattutto con le aspettative e i sogni che porta con sé.
E quindi accettare che non sia tu a decidere, in questo caso, è molto più complicato, perché, al contrario delle altre cose della vita, in cui la colpa la puoi assegnare un po’ a caso a seconda di quanto ti sia più o meno utile, beh in questo caso pensi, sbagliando, di essere l’unica responsabile di una faccenda che invece è molto complessa. E così, ancora una volta, è difficile riuscire a non fare a cazzotti col senso di colpa. Perché io? Perché proprio a me? Cosa ho sbagliato? Sono io quella sbagliata? Ah, noi donne così brave a colpevolizzarci, troviamo in questo l’aiuto sempre presente e pressante di questa cultura patriarcale che ci vuole indipendenti, ma non troppo, in carriera, ma non troppo, audaci ma non troppo, mamme, ma solo a una certa età, perché se quell’età la superi, quella socialmente e biologicamente accettata, beh, il problema è il tuo.
Non lo sai che la tua fertilità non è infinita?
Il problema però non è tuo, non è mio, non è nostro. Il problema, qualora ci fosse, perché non ne sono ancora convinta, è che a quell’età, quella in cui i figli non vengono subito, ci arriviamo con fatica, con la fatica di chi lavora da anni da precaria, di chi ha mandato giù qualsiasi cosa per fare il lavoro dei sogni e sa che se lo fa, quel figlio, rischia di perdere tutto, di chi vive lontano da casa perché casa non è un posto dal futuro certo, di chi ha vissuto per anni in stanze in case condivise, pur avendo un lavoro, perché i conti a fine mese non quadravano mai, di chi sogna un amore perfetto, di chi non si accontenta.
Intanto il tempo passa e quel desiderio arriva e ti bussa alla porta e tu non puoi più farne a meno, anche se sei precaria, anche se sei lontana da casa, anche se è tutto imperfetto, perché il momento perfetto, alla fine, non esiste mai. E allora attendi, e speri, e piangi, e ti fermi, e ricominci, e vai in crisi, e riattendi, riaspetti, ripiangi, ricominci. Attese lunghe, lunghissime, che logorano non solo te, ma anche chi hai accanto, a volte l’amore stesso. E ti senti in colpa perché forse sarebbe servito più coraggio, e invece hai atteso e ora rischi che quell’attesa sia infinita.
L’attesa che si trasforma in dolore, quel dolore che non riesce a trasformarsi in parole, quelle salvifiche che confortano. E le parole non escono perché parlarne vorrebbe dire illuderti, mostrarti vulnerabile, perchè ti senti sbagliata, per non aver pensato che la fertilità avesse un tempo, e ora quel tempo ti sembra finito.
Ma la faccenda, lo dicevamo prima, è complessa, e il tempo non è finito, almeno non lo è sempre, non per tutti, anche se nessuno ne parla mai davvero: in fondo, a chi importa se ancora una volta questo carico emotivo ricade sulle donne, anche se è la società a non riuscire a garantirci un futuro?
Perché è di questo che parliamo, della necessità di riconoscere che il nostro non è un paese per donne nemmeno in questo, togliendoci di fatto la possibilità di pensare concretamente all’idea di un figlio quando è il momento giusto per noi, che sia a 20, a 30 o a 40 anni. Lo fa togliendoci il diritto al lavoro, il diritto alla casa, il diritto a una rete assistenziale per noi e per i nostri figli una volta nati, lo fa non rendendo disponibile e gratuito un servizio come il social freezing (il congelamento degli ovociti), lo fa vietando l’accesso alla PMA (la procreazione medicalmente assistita) alle donne single e alle coppie omosessuali. Lo fa facendoci sentire in colpa delle nostre scelte che siano di vita e di libertà, di autodeterminazione e di indipendenza.
Viviamo in un Paese che fa di tutto per rendere difficile l’essere madre, a qualunque età, ma non fa niente per toglierci il carico di questo dolore, rendendolo di fatto un male di questi tempi.